PRATO NON DEVE CHIUDERE
una storia d'amore di un ex imprenditore tessile
una storia d'amore di un ex imprenditore tessile
L’ho catalogato, qui, fra i libri di "Biografia d'impresa" ma si inserisce nella tradizione della letteratura industriale italiana, un lungo racconto, di certo malinconico. Ma è anche un saggio, una forte denuncia, di un ex imprenditore tessile di Prato contro la globalizzazione, egli che ha rappresentato la terza generazione del Lanificio "T.O. Nesi & Figli S.p.A." di Prato e che ha lavorato nella della ditta di famiglia fino alla cessione avvenuta il 7 settembre 2004.
Il Nesi usa l'ironia per descrivere il disfacimento di un sistema industriale, a cominciare dai fondatori del lanificio della sua famiglia: Temistocle e Omero «questi improbabili nomi d'eroi greci».
«Immaginate un prodotto che per trent'anni non ha bisogno di essere cambiato. Immaginate un'azienda che fabbrica solo quel prodotto e, se soffre di un problema, è quello di non riuscire a produrne abbastanza per soddiifare un mercato così ampio e vitale da rendere trascurabile l'impatto della concorrenza. Immaginate di poter rimettere gli orologi sulla puntualità con cui le fatture venivano pagate a dieci giorni, nessuna contestazione, nessuna trattenuta per reclami ingiustificati, nessun fallimento, con assegni che ogni mattina arrivavano per posta dentro letterine quadrate color pastello. Azzerate ogni costo di ricerca e sviluppo, di fiere, di pubblicità, di consulenze stilistiche. Cancellate il concetto di rimanenza di magazzino. Ridete a crepapelle dell'idea di dover assumere un dirigente esterno per fare il lavoro che svolgete perfettamente voi. Ed ora immaginate una città intera che si fonda sull'industria tessile, costellata di decine e decine di aziende come la nostra, tutte in continua crescita e tutte interconnesse in un sistema di lavoro follemente frammentato ma incredibilmente efficace, fatto di centinaia di microaziende spesso a conduzione famigliare che si occupano di una fase intermedia della lavorazione del prodotto, ognuna con il suo nome, il suo orgoglio, il suo bilancio in utile - rappresentazioni perfette della realtà del sogno più stimolante del capitalismo, quel rarissimo fenomeno che lo rende quasi morale, per cui gli operai più capaci e più volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori posono provare a farlo con una certa possibilità di successo, compiendo così il primo passo su una scala mobile sociale che sembra non volersi fermare mai, e crea richezza distribuendola in modo se non equpo - non è mai equo - certamente capillare. Ma la cosa davvero bella, la cosa assolutamrente strepitosa era che non bisognava essere un genio per emergere, perché il sistema funzionava così bene che facevano soldi anche i testoni, purché si impegnassero; anche i tonti, purché dedicassero tutta la loro vita al lavoro».
Ha raccontato un modello italiano, della sua comunità, di imprenditori ed operai che da materiali poveri ha creato un diffuso benessere, trasformando gli stracci in buoni tessuti e dando vita ad un "capitalismo morale". Nella Prato ansimante tutti hanno la consapevolezza che «lo sviluppo miracoloso delle loro aziende era stato il risultato di una serie di circostanze straordinariamente favorevoli e irripetibili, una lunghissima e fortunatissima cavalcata sull'onda di una crescita epocale che era nata dalle rovine del dopoguerra e aveva trasportato tutti, capaci ed incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti». Con parole semplici abbiamo qui una sintesi di un dibattito che hanno fatto scrivere molte pagine ad economisti impegnati a capire, come mai, Prato e gli altri distretti italiani formati da realtà produttive piccole ha cavalcato con successo quell'onda che poi si è rotta, fiaccata, sugli scogli di quei "maledetti frangiflutti" (globalizzazione) che qui non è solo stata protezione ed opportunità per l'economia di un territorio.
La Prato del Nesi non esiste più, finiti i tempi descritti si iniziò una ricerca sulle fibre, sulle lavorazioni, sui finissaggi, ed anche questo è descritto nel libro.
L’ultima immagine che il libro ci lascia è dell’imponente manifestazione in cui hanno sfilato operai ed imprenditori (il riferimento è allo striscione tricolore, di quella bandiera infinita lunga oltre un chilometro, sorretta da duemila persone con in testa gli studenti del Buzzi, l'istituto tecnico ad indirizzo tessile) che il 28 febbraio 2009 è sfilata per le vie di Prato conclusasi in Piazza Mercatale, dove collocate in mezzo alla piazza vi sono «decine e decine di quelle casse di plastica che servono a immagazzinare il filato; loro a disporle in modo da formare la parola d’ordine della manifestazione: PRATO NON DEVE CHIUDERE.»
«Il rumore di una tessitura ti fa socchiudere gli occhi e sorridere, come quando si corre mentre nevica. Il rumore della tessitura non si ferma mai, ed è il canto più antico della nostra città, e ai bambini pratesi fa da ninnananna». Quel
rumore non richiama il nostalgico ricordo delle attività di Prato,
estinte da politiche industriali e visione sfuocata che non vede
lontano. È un atto di amore perché «Questa è la mia gente. La mia gente che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare».
L’Autore - che non è nuovo a cimentarsi con la penna - scrive anche bene, e rende “leggero” e di piacevole lettura questo libro scritto con la «rabbia» che ti dà l'«amore» per il proprio territorio.
Anch’io mi unisco a quella ideale manifestazione: PRATO NON DEVE CHIUDERE, perché il tessile è nella nostra cultura italiana, che non può perdere questa industriosa cittadina. E UN SE NE PUÒ PIÙ.
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Nel luglio del 2011 vince il Premio Strega, e la dedica di Nesi è «libro di resistenza... a tutte le persone che hanno perso il lavoro e le cui storie non vengono raccontate da nessuno».
Rames Gaiba
© Riproduzione riservata
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