C'è a Milano una città nella città; angoli talvolta defilati, che vogliono il piacere della scoperta.
Sono "cartoline" che una volta ritrovate si rivelano, perché luogo nascosto in un anfratto del Naviglio Grande, inaspettate meraviglie della “vecc Milàn”.
Sono "cartoline" che una volta ritrovate si rivelano, perché luogo nascosto in un anfratto del Naviglio Grande, inaspettate meraviglie della “vecc Milàn”.
Il Vicolo dei Lavandai, o meglio come indica la targa toponomastica “Vicolo privato Lavandai”, è una stradina sterrata e privata, che dall'Alzaia Naviglio Grande (al n° 14) si addentra per una ventina di metri seguendo un'antica roggia (canale artificiale), oggi alimentata dalle acque del Naviglio Grande, per poi svoltare a gomito e tornare verso l'Alzaia.
Soprattutto
a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, grazie alla presenza della
Darsena e dei Navigli, nell'area esterna alle mura spagnole e nei
pressi della Porta Ticinese si concentrarono attività di lavanderia,
concia delle pelli, lavorazioni di stoffe, carta e formaggi. Il Vicolo dei Lavandai era parte attiva di un gruppo di 19 lavatoi¹ all'interno della cerchia milanese, molto attivi e frequentati in quegli anni dalle lavandaie in forza alle famiglie più abbienti.
A testimonianza dell'antica vocazione artigianale e commerciale della zona qui sopravvivono ancora molte case a corte con ringhiera², tipiche dell'edilizia popolare milanese ottocentesca e che ne conservano tutto il fascino pittoresco.
Oggi il lavatoio, è stato restaurato, e richiama un'atmosfera di altri tempi, vagamente romantica. I Navigli con i suoi caseggiati limitrofi, con la varietà
di epoche e stili e destinazioni d'uso delle abitazioni, hanno attratto
molti studi ed atelier per artisti di arti figurative nonché locali
quali pub, ristoranti, di intrattenimento e sono diventati
una delle zone più frequentate della "movida" milanese, soprattutto
serale e notturna. Sembra che anche ai milanesi questo posto piaccia se
il quotidiano "Corriere della Sera", dopo un sondaggio del 2016, lo
riporta come luogo più amato della città, confermando il grande
interesse per questa zona, vero e proprio fulcro dell'identità
meneghina.
Questo
post è dedicato alle donne (“Donn” in dialetto milanese) che si
recavano al lavatoio (o ai lavatoi che vi sono in tanti paesi,
soprattutto in montagna) per mestiere, per necessità, curve sulla pietra
a fregare e risciacquare, l'odore del sapone.
In quel luogo, me le immagino, nelle giornate buone con il sole, anche per respirare un po' di frescura, mentre si raccontavano e cantavano; le giovani manifestano le loro esuberanze e le più anziane sciorinavano consigli. Me le immagino nelle giornate fredde, quando le mani diventavano violacee e il vento tagliava la pelle dei viso e la voglia di parlare veniva meno e i rancori uscivano violenti, allora al posto dei canti, le maledizioni, gli insulti e qualche volta gli accapigliamenti per futili motivi, per il posto migliore, o per ragioni di cuore.
In quel luogo, me le immagino, nelle giornate buone con il sole, anche per respirare un po' di frescura, mentre si raccontavano e cantavano; le giovani manifestano le loro esuberanze e le più anziane sciorinavano consigli. Me le immagino nelle giornate fredde, quando le mani diventavano violacee e il vento tagliava la pelle dei viso e la voglia di parlare veniva meno e i rancori uscivano violenti, allora al posto dei canti, le maledizioni, gli insulti e qualche volta gli accapigliamenti per futili motivi, per il posto migliore, o per ragioni di cuore.
La fontanella del Vicolo dei Lavandai
Viene in mente un detto milanese: “Ona lavada ona sügada e la par nanca duprada” (una lavata e un'asciugata e pare come nuova), forse perché più genuino di quella "Milano da bere"³ con cui molti hanno identificato la metropoli lombarda nel pieno del rampantismo arrivista nei ceti sociali emergenti e dall'immagine alla moda degli anni '80.
Vi è anche il detto “La cativa lavandêra la troeuva mai la bòna prèja” (La lavandaia svogliata non trova mai il sasso giusto). È intuitivo e sottile il significato di questo detto. In tempi passati, se si passava lungo l'Alzaia del Naviglio⁴ si vedevano molte lavandaie le quali, chine a lavare lungo la sponda del canale strofinavano i panni insaponati. Era un lavoro molto faticoso, che si faceva in ginocchio e stancava braccia e reni. Alludendo a questa fatica, si dice che la cattiva lavandaia non trovava mai la pietra che va bene per incominciare a lavare. A Milano, quando si vede qualcuno che non lavora con entusiasmo, ma tenta invece di traccheggiare, di guadagnar tempo, di sottrarsi alla fatica, si suol dire, con bonaria ironia, che ripete il gesto della cattiva lavandaia.
Vicolo dei Lavandai
prende il nome da un lavatoio che fino alla fine degli anni '50 era
usato dalle donne per lavare indumenti e biancheria. Il ruscelletto (“el fossètt” in dialetto milanese) prende le acque direttamente dalla Darsena di Porta Ticinese.
Al tempo non c'era il sapone per il bucato come lo abbiamo oggi; per lavare venivano usate diverse miscele come acqua bollente e cenere, la lisciva o “el paltòn” (o “paltun”), un composto casareccio preparato facendo cuocere la cenere insieme all'olio, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo".
Sotto la tettoia si possono ancora vedere i tipici stalli in pietra inclinati per strofinare energicamente i panni. Al numero 6
del Vicolo dei Lavandai, in un cortile adiacente, si trova ancora una centrifuga dei primi del
1900, in cui i panni venivano asciugati.
Questi lavoratori sin dal Settecento si erano perfino riuniti nella Confraternita dei Lavandai, composta da soli uomini, che si occupava del ritiro e del lavaggio di biancheria e indumenti, che portavano lungo i navigli, e la restituivano pulita., sostituiti occasionalmente con acqua bollente e cenere, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo". Del resto la pulizia corporale di un tempo era limitata a un cambio costante degli abiti, a una sorta di lavaggio a secco dovuto anche alla presenza di case senza bagni privati.
Ogni settimana la città seguiva un ritmo preciso. Il lunedì gli uomini giravano coi carri a ritirare i capi, mentre i garzoni correvano tra le vie gridando “s’cenderèe, s’cenderèe…”, chiedendo la cenere dei camini spenti. Era un ingrediente prezioso per la liscivia, che rendeva candide le lenzuola e brillanti le federe. Nelle case, vicino al focolare, c’era sempre la “tabella della lavandera”, una lavagnetta su cui si annotavano i capi consegnati: i “bragh” (pantaloni), le “fodrette” (federe), la “pedãgn” (gonna), la “sôca” (sottana), i “fregoni” (strofinacci), gli “àbet” (abiti), la “vestina” (abitino da bambina), i “bindell” (nastri e fasce), i “bratei” (bretelle), i “ciapin” (presine), la “cappòtta” (mantello), gli “scalfarott” (calzettoni di lana), il “tüin” (giacca corta da uomo), il “gilé” (panciotto), la “blüsg” (blusa da operaio), il “golettone” (un grande scialle di lana).
Il martedì era ancora dedicato a sciacqui e bolliture in mastelli pieni di acqua bollente con soda da bucato. Il mercoledì, se il tempo era bello, i prati diventavano un mosaico di lenzuola e abiti stesi al sole; d’inverno, invece, si ricorreva a grandi stanze riscaldate. Giovedì mattina, all’alba, ogni indumento era piegato, diviso per famiglia e caricato sui carri. Dal giovedì pomeriggio fino al sabato, i lavandai si occupavano degli alberghi e locande, che pretendevano la pulizia due volte alla settimana.
Sant'Antonio da Padova è il loro protettore e a lui è dedicato un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, ubicata a 100 metri circa dal Vicolo dei Lavandai, lungo l'Alzaia Naviglio Grande al numero 34.
Al tempo non c'era il sapone per il bucato come lo abbiamo oggi; per lavare venivano usate diverse miscele come acqua bollente e cenere, la lisciva o “el paltòn” (o “paltun”), un composto casareccio preparato facendo cuocere la cenere insieme all'olio, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo".
Sotto la tettoia si possono ancora vedere i tipici stalli in pietra inclinati per strofinare energicamente i panni.
foto: Paolo Monti
È curioso notare come il vicolo sia intitolato ai lavandai, non alle lavandaie! Questo perché durante dalla fine dell'Ottocento erano "I lavandee" gli uomini (e in seguito le donne) a svolgere il lavoro di pulizia e lavaggio, che ne ricavavano una vera e propria attività al servizio delle famiglie benestanti. Nel 1901 un censimento contò più di 3.600 addetti al mestiere, con giornate di lavoro che potevano arrivare a venti ore. Erano uomini, donne, giovani garzoni: tutti piegati sul bucato. E solo la domenica, finalmente, le mani screpolate e i corpi stanchi potevano fermarsi.
Questi lavoratori sin dal Settecento si erano perfino riuniti nella Confraternita dei Lavandai, composta da soli uomini, che si occupava del ritiro e del lavaggio di biancheria e indumenti, che portavano lungo i navigli, e la restituivano pulita., sostituiti occasionalmente con acqua bollente e cenere, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo". Del resto la pulizia corporale di un tempo era limitata a un cambio costante degli abiti, a una sorta di lavaggio a secco dovuto anche alla presenza di case senza bagni privati.
Ogni settimana la città seguiva un ritmo preciso. Il lunedì gli uomini giravano coi carri a ritirare i capi, mentre i garzoni correvano tra le vie gridando “s’cenderèe, s’cenderèe…”, chiedendo la cenere dei camini spenti. Era un ingrediente prezioso per la liscivia, che rendeva candide le lenzuola e brillanti le federe. Nelle case, vicino al focolare, c’era sempre la “tabella della lavandera”, una lavagnetta su cui si annotavano i capi consegnati: i “bragh” (pantaloni), le “fodrette” (federe), la “pedãgn” (gonna), la “sôca” (sottana), i “fregoni” (strofinacci), gli “àbet” (abiti), la “vestina” (abitino da bambina), i “bindell” (nastri e fasce), i “bratei” (bretelle), i “ciapin” (presine), la “cappòtta” (mantello), gli “scalfarott” (calzettoni di lana), il “tüin” (giacca corta da uomo), il “gilé” (panciotto), la “blüsg” (blusa da operaio), il “golettone” (un grande scialle di lana).
Il martedì era ancora dedicato a sciacqui e bolliture in mastelli pieni di acqua bollente con soda da bucato. Il mercoledì, se il tempo era bello, i prati diventavano un mosaico di lenzuola e abiti stesi al sole; d’inverno, invece, si ricorreva a grandi stanze riscaldate. Giovedì mattina, all’alba, ogni indumento era piegato, diviso per famiglia e caricato sui carri. Dal giovedì pomeriggio fino al sabato, i lavandai si occupavano degli alberghi e locande, che pretendevano la pulizia due volte alla settimana.
Sant'Antonio da Padova è il loro protettore e a lui è dedicato un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, ubicata a 100 metri circa dal Vicolo dei Lavandai, lungo l'Alzaia Naviglio Grande al numero 34.
Durante il periodo di guerra, con gli uomini chiamati al fronte, a utilizzare il lavatoio e a gestire parte degli ingaggi di lavanderia furono le donne, che continuarono a popolare questo angolo di Milano anche negli anni a seguire, fino a circa i primi anni '60 quando le nuove tecnologie portarono le lavatrici nelle case degli italiani e i lavatoi vennero via via dismessi.
Vicolo Lavandai - foto anni '60
In origine era detto “Vicol di bugandee” (da “bugada”, bucato). La postazione di lavoro era composta da un cassoncino di legno dette “brellin” o “âsa”, l’asse di legno inclinata sull’acqua, spesso contenente un cuscino rivestito di cuoio, dove si stava
inginocchiati a strofinare i panni negli stalli di pietra ancora
visibili.⁵ In questo modo non vi era il contatto diretto con la pietra, mentre con le braccia si sciacquavano i panni prima nel canale e poi contro le pietre del bordo del Naviglio Grande. Vicino c’erano la “sidela” (il secchio) e il “sigiun” (il mastello). Con le mani immerse nell’acqua gelida, usavano il “paltun”, una miscela di cenere, liscivia e talvolta sterco di vacca, per sgrassare i tessuti.
Oggi
i locali della vecchia drogheria che vendeva sapone e candeggina alle
donne impegnate al lavatoio ospitano il Ristorante "El Brellin" che, con
i camini e i soffitti a cassettoni, ha mantenuto quasi intatta l'atmosfera
originaria del luogo.
Le lavandaie ed i Navigli di Milano (anni '20 del Novecento)
La drogheria che vendeva il sapone alle lavandaie (1950 circa)
Nella
piazzetta in fondo al vicolo si trova la chiostra, un affaccio sul
Naviglio Grande dove venivano scaricate le merci in arrivo in città. La
gran operosità della Darsena di Milano diede lavoro a migliaia di
operai portuali, magazzinieri, marinai, commercianti, albergatori,
professionisti di ogni genere specializzati e non, inclusi i lavandai.
a Milano presso il Vicolo dei Lavandai.⁶
Lo scatto fu pubblicato il 27 dicembre 1957 sul periodico Epoca n. 378
Questo vicolo è stato una location di film o sceneggiati televisivi.
ALDA MERINI, la poetessa dei Navigli
La figura di Alda Merini⁸ fu indissolubilmente legata a quella del Naviglio Grande, accanto al quale visse dal secondo dopoguerra fino alla morte. Fu così che Alda Merini divenne la poetessa dei Navigli per antonomasia. Per questo motivo è giusto ricordarla con una poesia legata ad una realtà che Alda viveva quotidianamente.
Lavandaie
(da "La Terra Santa e altre poesie", 1984)
Lavandaie avvizzite
sul corpo del Naviglio
con un cilicio stretto
stretto intorno alla vita,
Milano odia: La polizia non può sparare (1974)⁷
La figura di Alda Merini⁸ fu indissolubilmente legata a quella del Naviglio Grande, accanto al quale visse dal secondo dopoguerra fino alla morte. Fu così che Alda Merini divenne la poetessa dei Navigli per antonomasia. Per questo motivo è giusto ricordarla con una poesia legata ad una realtà che Alda viveva quotidianamente.
Lavandaie
(da "La Terra Santa e altre poesie", 1984)
Lavandaie avvizzite
sul corpo del Naviglio
con un cilicio stretto
stretto intorno alla vita,
lavandaie violente
come le vostre carni
donne di grande fede
sopravvissute al lutto
della bomba di Hiroshima...
Lavandaie corrotte
dall'odore del vino,
ossequiose e prudenti
Lavandaie corrotte
dall'odore del vino,
ossequiose e prudenti
fortissime nell'amore
che sbattete indumenti
come sbattete il cuore.
₁ Milano aveva 19 lavatoi: 11 lavatoi sul Naviglio Grande, 3 sulla Martesana, 5 sul Pavese.
₂ La Milano "popolare" del XIX - XX secolo, dove si parlava ancora solamente il milanese, dove si beveva il “cicchetin” all’üsteria, dove affacciati ad una ringhiera si guardava la città dall’alto e si conversava per ore con la vicina del piano di sotto. Abitare in quelle "case di ringhiera" con quei ballatoi caratteristici era qualcosa di unico e irripetibile, che andava anche oltre alla fisicità di quei ballatoi stretti e lunghi unica via di accesso alle abitazioni. Quell’abitare era più uno stato d’animo, un modo di essere e di esistere, che è decisamente e completamente diverso da come viviamo oggi. Le prime case a ringhiera nascono verso la fine dell’Ottocento, come risposta al crescente flusso migratorio che porta più di duecentomila nuovi lavoratori in città. Nascevano come alloggi minimi e a basso prezzo, monolocali e bilocali senza bagno interno e acqua corrente. C’era una fonte d’acqua comune nel cortile la cosiddetta “trumba ” una pompa idraulica manuale da cui usciva sempre acqua freschissima, quasi gelata anche d’estate. Ecco perché in milanese idraulico si dice “trumbé”. Per le necessità fisiologiche ognuno ci metteva tutta la sua fantasia e teneva a disposizione una “sidela”, cioè un secchio solitamente smaltato di bianco. Ecco perché oggi cerchiamo rifugio anche fisico in queste abitazioni popolari, operaie che ci ricordano chi eravamo e da dove veniamo. L’unica differenza rispetto ad allora è che le abbiamo dotate di bagno, magari con vasca idromassaggio. Perché va bene la storia ma la comodità prima di tutto.
₃ La definizione è tratta dal celebre slogan pubblicitario dell'Amaro Ramazzotti, ideato nel 1985 da Marco Mignani (Milano, 1944-2008) noto pubblicitario.
₄ L'Alzaia era il lato del Naviglio dove passavano i buoi che dovevano trainare le bettoline controcorrente.
₅ Il brellin è un cassoncino, poco dissimile da una piccolissima biga, dove le lavandaie si accosciavano ginocchioni per lavare i panni alla pietra. È allogato al margine di quel fossato ove stanno lavando. (dal dizionario milanese-italiano del 1839 di Francesco Cherubini)
₆ Simenon era venuto a Milano in cerca di personaggi e ambienti inediti per un suo nuovo romanzo. "Lo scrittore ha frugato strade, cortili, case e osterie della Milano che ricorda più da vicino la periferia parigina", si legge sul servizio fotografico di Emilio Ronchini apparso su Epoca.
₇ Milano odia: la polizia non può sparare, è un film diretto da Umberto Lenzi e considerato uno dei più violenti noir italiani.
₈ Alda Merini nacque il primo giorno di primavera, e cioè il 21 marzo, a Milano nel 1931 ed è morta il 1 novembre 2009. Il suo nome fa parte della storia della poesia italiana contemporanea. Abitava a Milano in Ripa di Porta Ticinese 47 (e una targa sulla facciata dell'edificio la ricorda "nell'intimità dei misteri del mondo". A Lei è stato intitolato, nel 2019, il "Ponte Alda Merini", ponte di pietra sul Naviglio Grande che è di fronte a quella che è stata la sua casa. È sepolta al Cimitero Monumentale, dove si può passeggiare tra artisti, letterati e famiglie dell'imprenditoria meneghina. Qui riposano tanti, certamente il più illustre è Alessandro Manzoni, ma anche Filippo Tommaso Marinetti e Salvatore Quasimodo.
IL VICOLO DEI LAVANDAI NELLA PITTURA
₁ Milano aveva 19 lavatoi: 11 lavatoi sul Naviglio Grande, 3 sulla Martesana, 5 sul Pavese.
₂ La Milano "popolare" del XIX - XX secolo, dove si parlava ancora solamente il milanese, dove si beveva il “cicchetin” all’üsteria, dove affacciati ad una ringhiera si guardava la città dall’alto e si conversava per ore con la vicina del piano di sotto. Abitare in quelle "case di ringhiera" con quei ballatoi caratteristici era qualcosa di unico e irripetibile, che andava anche oltre alla fisicità di quei ballatoi stretti e lunghi unica via di accesso alle abitazioni. Quell’abitare era più uno stato d’animo, un modo di essere e di esistere, che è decisamente e completamente diverso da come viviamo oggi. Le prime case a ringhiera nascono verso la fine dell’Ottocento, come risposta al crescente flusso migratorio che porta più di duecentomila nuovi lavoratori in città. Nascevano come alloggi minimi e a basso prezzo, monolocali e bilocali senza bagno interno e acqua corrente. C’era una fonte d’acqua comune nel cortile la cosiddetta “trumba ” una pompa idraulica manuale da cui usciva sempre acqua freschissima, quasi gelata anche d’estate. Ecco perché in milanese idraulico si dice “trumbé”. Per le necessità fisiologiche ognuno ci metteva tutta la sua fantasia e teneva a disposizione una “sidela”, cioè un secchio solitamente smaltato di bianco. Ecco perché oggi cerchiamo rifugio anche fisico in queste abitazioni popolari, operaie che ci ricordano chi eravamo e da dove veniamo. L’unica differenza rispetto ad allora è che le abbiamo dotate di bagno, magari con vasca idromassaggio. Perché va bene la storia ma la comodità prima di tutto.
₃ La definizione è tratta dal celebre slogan pubblicitario dell'Amaro Ramazzotti, ideato nel 1985 da Marco Mignani (Milano, 1944-2008) noto pubblicitario.
₄ L'Alzaia era il lato del Naviglio dove passavano i buoi che dovevano trainare le bettoline controcorrente.
₅ Il brellin è un cassoncino, poco dissimile da una piccolissima biga, dove le lavandaie si accosciavano ginocchioni per lavare i panni alla pietra. È allogato al margine di quel fossato ove stanno lavando. (dal dizionario milanese-italiano del 1839 di Francesco Cherubini)
₆ Simenon era venuto a Milano in cerca di personaggi e ambienti inediti per un suo nuovo romanzo. "Lo scrittore ha frugato strade, cortili, case e osterie della Milano che ricorda più da vicino la periferia parigina", si legge sul servizio fotografico di Emilio Ronchini apparso su Epoca.
₇ Milano odia: la polizia non può sparare, è un film diretto da Umberto Lenzi e considerato uno dei più violenti noir italiani.
₈ Alda Merini nacque il primo giorno di primavera, e cioè il 21 marzo, a Milano nel 1931 ed è morta il 1 novembre 2009. Il suo nome fa parte della storia della poesia italiana contemporanea. Abitava a Milano in Ripa di Porta Ticinese 47 (e una targa sulla facciata dell'edificio la ricorda "nell'intimità dei misteri del mondo". A Lei è stato intitolato, nel 2019, il "Ponte Alda Merini", ponte di pietra sul Naviglio Grande che è di fronte a quella che è stata la sua casa. È sepolta al Cimitero Monumentale, dove si può passeggiare tra artisti, letterati e famiglie dell'imprenditoria meneghina. Qui riposano tanti, certamente il più illustre è Alessandro Manzoni, ma anche Filippo Tommaso Marinetti e Salvatore Quasimodo.
IL VICOLO DEI LAVANDAI NELLA PITTURA
Vicolo dei Lavandai (1985)
Marco Crippa (Milano, 1936 - )
colori a olio a spatola su tela, 70 x 50 cm
Marco Crippa (Milano, 1936 - )
colori a olio a spatola su tela, 70 x 50 cm
Giuliano Pisati
olio a tecnica mista su tela, 50 x 100 cm
Rames Gaiba
© Riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
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Qui ho scritto anche del “Giallo Milano” o “Giallo Maria Teresa”.All’inizio del Novecento, ogni casa popolare che si rispettasse veniva dipinta di Giallo Milano, proprio per ragioni economiche e storiche. Oggi, quel colore pastello si può trovare ancora con estrema facilità in giro per la città, basti solamente pensare alle case che si affacciano sul Naviglio Grande o sulla Martesana, dove gli edifici sono più vecchi.
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