PILLING

Termine inglese da pills, propriamente "pillola", "pallottola".

Difetto grave più o meno marcato di un tessuto, specialmente della maglia, a presentare sulla propria superficie un certo numero di palline, gruppetti, bottoni, costituiti dalla peluria di fibre che si formano in seguito ad una azione ripetuta di sfregamento e di pressione e dei movimenti interni delle fibre nel tessuto; dapprima sollevano della peluria che in un secondo momento si aggrega formando pallottoline di fibre di pochissimi millimetri di diametro che alterano la regolarità di aspetto del tessuto. Tale peluria, quando raggiunge una certa lunghezza, tende col perdurare di queste sollecitazioni, a creare dei grovigli di fibre che si presentano sotto forma di agglomerati sferici, a dimensione variabile. 

Il pilling riduce la morbidezza e la consistenza dei tessuti. Il tessuto risulta più ruvido al tatto. Diminuisce anche l'attrattiva estetica del capo. Le texture lisce sono spesso associate a una qualità superiore.

In italiano: bioccolatura (anche se meno usato).
Il termine deriva dall'incrocio fonetico e semantico tra "boccolo" e "fiocco", dando origine a un termine che indica una massa minuta e morbida, simile a un batuffolo. Il termine "bioccolo" è probabilmente derivato del latino tardo buccula col significato di ‘ricciolo’, incrociato con fiocco.


effetto pilling


Le cause che portano alla formazione del difetto sono da ricercare soprattutto nelle caratteristiche del filato; infatti si può osservare come il pilling si presenti normalmente su tessuti fabbricati con filati discontinui (raramente in quelli fabbricati con fibre continue,in cui si verifica solo nel caso di rottura delle fibre continue sotto l'effetto di una forte azione abradente), o con filati aventi basse torsioni (come i filati ad uso maglieria), o nelle caratteristiche delle fibre. Le fibre sintetiche (acrilico, poliestere, nylon), pure e in mischia, favoriscono il formarsi del pilling a causa della loro elevata tenacità, della resistenza alle flessioni, della rigidità. Infatti fibre con una buona tenacità e scarsa rigidità sono facilmente portate alla superficie da un'azione meccanica esterna e quindi, una volta assemblatesi, daranno origine al difetto. Il fenomeno si manifesta anche su tessuti di lana (specialmente lambswool e cashmere), viscosa, cotone cardato. Altre caratteristiche delle fibre che possono influire sulla formazione del pilling sono la finezza, la lunghezza e la sezione trasversale. Ad esempio un filato formato da fibre discontinue con sezione circolare e superficie liscia darà origine ad un maggior pilling.

Maglia - Un punto più stretto e compatto terrà più ferme le fibre, mentre un maglione fatto con un punto più aperto e morbido le farà muovere maggiormente. Questo ultimo aspetto potrebbe portare ad una presenza più importante di pelucchi, anche se il tutto deve essere sempre contestualizzato rispetto alla qualità del materiale.¹


Eleonora Marini - Accettare il pilling è una forma di sostenibilità? Come distinguere il pilling di materiali di qualità e prevenirlo; Rifò [Rifò Stories], 28 ottobre 2021.  


Metodi di Controllo in Laboratorio (Test di pilling) ed apparecchi di prova 

Ne esistono diversi in grado di produrre artificialmente il pilling. Questi test simulano l'usura e lo sfregamento per valutare la formazione di pallini: 
  • Test Martindale (ISO 12945-2): Un disco con materiale abrasivo sfregato su un campione di tessuto, generando pilling o abrasione.
  • Test Random Tumble (ASTM D3512): Il campione viene fatto ruotare in una scatola con rivestimento di sughero, sfregando contro le pareti e altri campioni.
  • Test Pill Box (ASTM D3514): Sfere abrasive vengono agitate all'interno di una scatola contenente il campione di tessuto.
Il modo più conveniente per testare i tessuti per il pilling del tessuto è lo sfregamento continuo, che causa attrito e calore e porta al pilling del tessuto. La velocità con cui ciò avviene porta ad un risultato e ad una categorizzazione del tessuto. La classifica viene eseguita utilizzando la forma tradizionale del contrasto del campione, ovvero viene applicata a un campione standard di un particolare prodotto. 



Valutazione del pilling del tessuto

Classe     Descrizione

5     Nessun cambiamento
4     Leggera peluria e/o pilling
3     Moderata formazione di peluria/pilling con palline che ricoprono parte del tessuto
2     Grave peluria/pilling che ricopre la maggior parte del tessuto
1     Estrema peluria/pilling che ricopre l'intero tessuto


Descrizione dei gradi di infeltrimento

Classe     Descrizione

5     Nessun cambiamento
4     Leggera infeltrimento sulla superficie
3     Moderata infeltrimento in superficie
2     Evidente infeltrimento sulla superficie
1     Grave infeltrimento sulla superficie


La  tecnologia anti pilling

Per prevenire la formazione di pilling, la soluzione migliore è utilizzare ausiliari di finissaggio in forma di resine, che fungono da leganti e fissano le fibre, impedendo la migrazione sulla superficie di filati e tessuti, e quindi minimizzando la formazione di pilling.

Un accorgimento per la lana è quello in produzione di mischiare alla lana un 5% di prodotti sintetici come gli elastomeri, che stringono la fibra su se stessa e impediscono l’uscita della fibra corta dal filo.

Per prevenire il pilling nell'uso domestico 

Si possono raccomandare alcuni accorgimenti:
  1. Lavare i vestiti al rovescio: durante il lavaggio in lavatrice l'indumento andrà inevitabilmente a sfregarsi contro gli altri capi di abbigliamento. Impostiamo il programma su “lavaggi delicati” a bassa temperatura e laviamolo al rovescio, in modo da non far rovinare la faccia principale. In questa maniera i pills appariranno tendenzialmente all’interno del capo;
  2. Lavare i vestiti a mano, senza strofinare: è un modo forse meno comodo, ma decisamente più delicato per lavare i nostri vestiti e prevenire il pilling;
  3. Non sfregare il tessuto macchiato: quando macchiamo un tessuto, l’istinto è quello di rimuovere la macchia strofinando, ma quest’operazione rischia di favorire il pilling! Per trattare le macchie su tessuti soggetti al pilling, mettiamo l'indumento su un vecchio asciugamano o uno straccio pulito. Applica lo smacchiatore, quindi passiamo sull’area un panno pulito. La macchia si trasferirà sulla stoffa sottostante evitando l’attrito;
  4. Evitiamo l’uso dell’asciugatrice, stendiamo i vestiti all’aria: il calore e l'attrito generato dall’asciugatrice favoriscono la formazione di pallini sul tessuto. Meglio stendere e far asciugare gli indumenti soggetti al pilling all’aria;
  5. Evitare di indossare zaini o borse a tracolla:  sempre per non creare attrito sul tessuto è meglio' evitare questi accessori ed optare per borse a mano . Per la cintura di sicurezza in auto è meglio evitare di indossare come ultimo capo (sopra) in particolare maglioni, camicie in flanella, felpe.

Per rimuovere i pallini  se si sono gia formati 

Possiamo impiegare un pettine antipelucchi per la lana o una pietra pomice (da evitarsi il rasoiio). Quest’ultima in particolare può essere utile per eliminare i pallini da felpe e indumenti in pile o lana. Seguiamo la trama del tessuto e cerchiamo di non essere troppo aggressivi altrimenti rischiamo di bucare il tessuto. Evitiamo questo rimedio sul cotone o su tessuti delicati o lucidi.

Immagine: © Rifò S.r.l.


Curatore: Rames Gaiba
© Riproduzione riservata
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Vicolo dei Lavandai - Milano

 
C'è a Milano una città nella città; angoli talvolta defilati, che vogliono il piacere della scoperta.
Sono "cartoline" che una volta ritrovate si rivelano, perché luogo nascosto in un anfratto del Naviglio Grande, inaspettate meraviglie della vecc Milàn.



Il Vicolo dei Lavandai o, meglio, come indica la targa toponomastica Vicolo privato Lavandai”, è una stradina sterrata e privata, che dall'Alzaia Naviglio Grande (al n° 14) si addentra per una ventina di metri seguendo un'antica roggia (canale artificiale), oggi alimentata dalle acque del Naviglio Grande, per poi svoltare a gomito e tornare verso l'Alzaia. 

È facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici (consigliati), ed in particolare con la 
Metro: M2 linea verde (La fermata della metropolitana più vicina è “Porta Genova FS”).



Soprattutto a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, grazie alla presenza della Darsena e dei Navigli, nell'area esterna alle mura spagnole e nei pressi della Porta Ticinese si concentrarono attività di lavanderia, concia delle pelli, lavorazioni di stoffe, carta e formaggi. Il Vicolo dei Lavandai era parte attiva di un gruppo di 19 lavatoi¹ all'interno della cerchia milanese, molto attivi e frequentati in quegli anni dalle lavandaie in forza alle famiglie più abbienti.
 
A testimonianza dell'antica vocazione artigianale e commerciale della zona qui sopravvivono ancora molte case di ringhiera² con corte, tipiche dell'edilizia popolare milanese ottocentesca e che ne conservano tutto il fascino pittoresco. Nate nei primi anni del 900 come residenze popolari. Le abitazioni sono tutte identiche: due stanze collegate tra loro per un totale di circa 40 o 50 metri quadrati calpestabili. L’esterno della casa era per la maggiore di color “giallo Milano”, le case vennero abitate per la maggior parte dalle persone più umili e in difficoltà. Tipiche della zona dei Navigli, le case di ringhiera erano sparse un po’ per tutta la città. Oggi le case di ringhiera sono circa 70mila e costituiscono una tipologia abitativa molto ambita e ricercata soprattutto per le persone che cercano un rifugio nella storia e nella tradizione milanese. Rappresentano quel pittoresco che la modernità ha cancellato per sempre. 


Stradina sterrata che svolta a gomito per tornare all'Alzaia

Corti interne del Vicolo dei Lavandai


Case in Vicolo dei Lavandai, oggi a disposizione per i turisti.


Oggi il lavatoio, è stato restaurato, e richiama un'atmosfera di altri tempi, vagamente romantica. I Navigli con i suoi caseggiati limitrofi, con la varietà di epoche e stili e destinazioni d'uso delle abitazioni, hanno attratto molti studi ed atelier per artisti di arti figurative nonché locali quali pub, ristoranti, di intrattenimento e sono diventati una delle zone più frequentate della "movida" milanese, soprattutto serale e notturna. Sembra che anche ai milanesi questo posto piaccia se il quotidiano "Corriere della Sera", dopo un sondaggio del 2016, lo riporta come luogo più amato della città, confermando il grande interesse per questa zona, vero e proprio fulcro dell'identità meneghina.




Questo post è dedicato alle donne (Donn in dialetto milanese) che si recavano al lavatoio (o ai lavatoi che vi sono in tanti paesi, soprattutto in montagna) per mestiere, per necessità, curve sulla pietra a fregare e risciacquare, l'odore del sapone.

In quel luogo, me le immagino, nelle giornate buone con il sole, anche per respirare un po' di frescura, mentre si raccontavano e cantavano; le giovani manifestano le loro esuberanze e le più anziane sciorinavano consigli. Me le immagino nelle giornate fredde, quando le mani diventavano violacee e il vento tagliava la pelle dei viso e la voglia di parlare veniva meno e i rancori uscivano violenti, allora al posto dei canti, le maledizioni, gli insulti e qualche volta gli accapigliamenti per futili motivi, per il posto migliore, o per ragioni di cuore.
 
 
La fontanella del Vicolo dei Lavandai


Viene in mente un detto milanese: Ona lavada ona sügada e la par nanca duprada (una lavata e un'asciugata e non sembra neanche (stata) adoperata). Ironico questo detto, ma certamente più genuino di quella Milano da bere³ con cui molti hanno identificato la metropoli lombarda nel pieno del rampantismo arrivista nei ceti sociali emergenti e dall'immagine alla moda degli anni '80.

Vi è anche il detto 
La cativa lavandêra la tröva mai la bóna prèja (La lavandaia svogliata non trova mai la pietra [sasso] giusta). Similare nel significato al proverbio Cattiva sarta non trova mai le forbiciÈ intuitivo e sottile il significato di questo detto. In tempi passati, se si passava lungo l'Alzaia del Naviglio si vedevano molte lavandaie le quali, chine a lavare lungo la sponda del canale strofinavano i panni insaponati. Era un lavoro molto faticoso, che si faceva in ginocchio e stancava braccia e reni. Alludendo a questa fatica, si dice che la cattiva lavandaia non trovava mai la pietra che va bene per incominciare a lavare. A Milano, quando si vede qualcuno che non lavora con entusiasmo, ma tenta invece di traccheggiare, di guadagnar tempo, di sottrarsi alla fatica, si suol dire, con bonaria ironia, che ripete il gesto della cattiva lavandaia.   

Incö l’è festa, e i poverìtt i cambien la vesta” (Oggi è festa, e i poveretti cambiano il vestito). Questo proverbio sottolinea il fatto che i poveri avevano solo due abiti, quello di tutti i giorni e l’abito della festa. Questo ci fa comprendere come anche per i poveri fosse importante essere puliti e ordinati nel giorno di festa. 


      
Vicolo dei Lavandai prende il nome da un lavatoio, una vasca in pietra, sovrastato da una tettoia, che fino alla fine degli anni '50 del secolo scorso era usato dalle donne per lavare indumenti e biancheria. Il ruscelletto (el fossètt in dialetto milanese) prende le acque direttamente dalla Darsena di Porta Ticinese.




Al tempo non c'era il sapone per il bucato come lo abbiamo oggi; per lavare venivano usate diverse miscele come acqua bollente e cenere, la lisciva o el paltòn (o paltun), un composto casareccio semidenso (una specie di "pulizia secca", ante litteram dell'odierno "lavaggio a secco") preparato facendo cuocere la cenere insieme all'olio, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo". Nei casi più delicati si macerava preventivamente per 24 ore la biancheria con un misterioso impasto di escrementi di vacca e di bue e l'aggiunta di lisciva.

Sotto la tettoia si possono ancora vedere i tipici stalli in pietra inclinati (la “píöra”) per strofinare energicamente i panni.
 
Al numero 6 del Vicolo dei Lavandai, in un cortile adiacente, si trova ancora una centrifuga dei primi del '900, in cui i panni venivano asciugati.


Vicolo dei Lavandai (1955 circa o 1962)
foto: Paolo Monti  
 

È curioso notare come il vicolo sia intitolato ai lavandai, non alle lavandaie! Questo perché durante dalla fine dell'Ottocento erano "I lavandee" gli uomini (e in seguito le donne) a svolgere il lavoro di pulizia e lavaggio, che ne ricavavano una vera e propria attività al servizio delle famiglie benestanti. Nel 1901 un censimento contò più di 3.600 addetti al mestiere, con giornate di lavoro che potevano arrivare a venti ore. Erano uomini, donne, giovani garzoni: tutti piegati sul bucato. E solo la domenica, finalmente, le mani screpolate e i corpi stanchi potevano fermarsi.

Nel Medioevo, le corporazioni svolsero un importante ruolo: nel 1300, i lavandai erano annoverati tra le attività diffuse fra il popolo minuto, al pari di altre attività legate all'abbigliamento (sarti, cimatori, farsettai, tintori, cardatori, scardassieri e ciompi).     




Questi lavoratori sin dal Settecento si erano riuniti nella Confraternita dei Lavandai, composta da soli uomini, che si occupava del ritiro e del lavaggio di biancheria e indumenti, che portavano lungo i navigli, e la restituivano pulita, sostituiti occasionalmente con acqua bollente e cenere, e passati vigorosamente con un panno chiamato "ceneracciolo". Del resto la pulizia corporale di un tempo era limitata a un cambio costante degli abiti, a una sorta di lavaggio a secco dovuto anche alla presenza di case senza bagni privati.

Ogni settimana la città seguiva un ritmo preciso. Il lunedì gli uomini giravano coi carri a ritirare i capi, mentre i garzoni correvano tra le vie gridando “s’cenderèe, s’cenderèe…”, chiedendo la cenere dei camini spenti. Era un ingrediente prezioso per la liscivia, che rendeva candide le lenzuola e brillanti le federe. Nelle case, vicino al focolare, c’era sempre la “tabella della lavandera”, una lavagnetta su cui si annotavano i capi consegnati: i “bragh” (pantaloni), le “fodrette” (federe), la “pedãgn” (gonna), la “sôca” (sottana), i “fregoni” (strofinacci), gli “àbet” (abiti), la “vestina” (abitino da bambina), i “bindell” (nastri e fasce), i “bratei” (bretelle), i “ciapin” (presine), la “cappòtta” (mantello), gli “scalfarott” (calzettoni di lana), il “tüin” (giacca corta da uomo), il “gilé” (panciotto), la “blüsg” (blusa da operaio), il “golettone” (un grande scialle di lana).

Il martedì era ancora dedicato a sciacqui e bolliture in mastelli pieni di acqua bollente con soda da bucato. Il mercoledì, se il tempo era bello, i prati diventavano un mosaico di lenzuola e abiti stesi al sole; d’inverno, invece, si ricorreva a grandi stanze riscaldate. La riconsegna dei panni avveniva il giovedì, 
diviso per famiglia e caricato sui carri, per dar tempo alle famiglie di rammendare e stirare la biancheria. Negli ultimi giorni della settimana, si pulivano le lavanderie, si curava la manutenzione degli attrezzi, ci si procurava legna, carbone e solventi.   
La Confraternita scelse come protettore Sant'Antonio da Padova e a lui è dedicato un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio, ubicata a 100 metri circa dal Vicolo dei Lavandai, lungo l'Alzaia Naviglio Grande al numero 34.

Santa Maria delle Grazie a fine Ottocento


Durante il periodo di guerra, con gli uomini chiamati al fronte, a utilizzare il lavatoio e a gestire parte degli ingaggi di lavanderia furono le donne, che continuarono a popolare questo angolo di Milano anche negli anni a seguire, fino a circa i primi anni '60 quando le nuove tecnologie portarono le lavatrici nelle case degli italiani e i lavatoi vennero via via dismessi. 


 Vicolo Lavandai - foto anni '60


In origine era detto Vicol di bugandee (da bugada, bucato). La postazione di lavoro era composta da un cassoncino di legno dette brellin o “âsa”, l’asse di legno inclinata sull’acqua, spesso contenente un cuscino rivestito di cuoio, dove si stava inginocchiati a strofinare i panni negli stalli di pietra ancora visibili.  In questo modo non vi era il contatto diretto con la pietra, mentre con le braccia si sciacquavano i panni prima nel canale e poi contro le pietre del bordo del Naviglio Grande. Vicino c’erano la “sidela” (il secchio) e il “sigiun” (il mastello). Con le mani immerse nell’acqua gelida, usavano il “paltun”, una miscela di cenere, liscivia e talvolta sterco di vacca, per sgrassare i tessuti.




Oggi i locali della vecchia drogheria che vendeva sapone e candeggina alle donne impegnate al lavatoio ospitano il Ristorante "El Brellin" che, con i camini e i soffitti a cassettoni, ha mantenuto quasi intatta l'atmosfera originaria del luogo.


Le lavandaie ed i Navigli di Milano (anni '20 del Novecento)
 

La drogheria che vendeva il sapone alle lavandaie (1950 circa)
 
 
Nella piazzetta in fondo al vicolo si trova la chiostra, un affaccio sul Naviglio Grande dove venivano scaricate le merci in arrivo in città. La gran operosità della Darsena di Milano diede lavoro a migliaia di operai portuali, magazzinieri, marinai, commercianti, albergatori, professionisti di ogni genere specializzati e non, inclusi i lavandai.    
 
 
Georges Simenon (autore, fra gli altri, dell'Ispettore Maigret) 
a Milano presso il Vicolo dei Lavandai.
Lo scatto fu pubblicato il 27 dicembre 1957 sul periodico Epoca n. 378
Qui cammina nel vicolo, alle sue spalle ci sono alcune lavandaie 
e tanti panni bagnati appoggiati alle pietre. 


Simenon qui al numero 2 di vicolo dei Lavandai: 
la foto lo ritrae nel cortile, accanto alla baracca di legno che serviva da bagno comune, 
tra panni stesi e muri scrostati.
foto: 
la Repubblica - Milano (pubblicata il 28 gennaio 2023)
 
Questo vicolo è stato una location di film o sceneggiati televisivi.

Milano odia: La polizia non può sparare  (1974)
 
 
Squadra volante Ligera (2007)
 
 

ALDA MERINI, la poetessa dei Navigli


La figura di Alda Merini fu indissolubilmente legata a quella del Naviglio Grande, accanto al quale visse dal secondo dopoguerra fino alla morte. Fu così che Alda Merini divenne la poetessa dei Navigli per antonomasia. Per questo motivo è giusto ricordarla con una poesia legata ad una realtà che Alda viveva quotidianamente.


Lavandaie
(da "La Terra Santa e altre poesie", 1984)

Lavandaie avvizzite
sul corpo del Naviglio
con un cilicio stretto
stretto intorno alla vita,
lavandaie violente
come le vostre carni
donne di grande fede
sopravvissute al lutto
della bomba di Hiroshima...
Lavandaie corrotte
dall'odore del vino,
ossequiose e prudenti
fortissime nell'amore
che sbattete indumenti
come sbattete il cuore.


Milano aveva 19 lavatoi: 11 lavatoi sul Naviglio Grande, 3 sulla Martesana, 5 sul Pavese.   
La Milano "popolare" del XIX - XX secolo, dove si parlava ancora solamente il milanese, dove si beveva il “cicchetin” all’üsteria, dove affacciati ad una ringhiera si guardava la città dall’alto e si conversava per ore con la vicina del piano di sotto. Abitare in quelle "case di ringhiera", dalle case formate da una corte centrale e da lunghi e stretti ballatoi caratteristici, era qualcosa di unico e irripetibile, che andava anche oltre alla fisicità di quei ballatoi unica via di accesso alle abitazioni. Quell’abitare era più uno stato d’animo, un modo di essere e di esistere, che è decisamente e completamente diverso da come viviamo oggi. Le prime case a ringhiera nascono verso la fine dell’Ottocento, come risposta al crescente flusso migratorio che porta più di duecentomila nuovi lavoratori in città. Nascevano come alloggi minimi e a basso prezzo, monolocali e bilocali senza bagno interno e acqua corrente. C’era una fonte d’acqua comune nel cortile  la cosiddetta “trumba ” una pompa idraulica manuale da cui usciva sempre acqua freschissima, quasi gelata anche d’estate. Ecco perché in milanese idraulico si dice “trumbé”. Per le necessità fisiologiche ognuno ci metteva tutta la sua fantasia e teneva a disposizione una “sidela”, cioè un secchio solitamente smaltato di bianco. Ecco perché oggi cerchiamo rifugio anche fisico in queste abitazioni popolari, operaie che ci ricordano chi eravamo e da dove veniamo. L’unica  differenza rispetto ad allora è che le abbiamo dotate di bagno, magari con vasca idromassaggio. Perché va bene la storia ma la comodità prima di tutto.
La definizione è tratta dal celebre slogan pubblicitario dell'Amaro Ramazzotti, ideato nel 1985 da Marco Mignani (Milano, 1944-2008) noto pubblicitario.
L'Alzaia era il lato del Naviglio dove passavano i buoi che dovevano trainare le bettoline controcorrente. 
Sull'antico mestiere dei lavandai - Lezioni prof. Cecilia Di Bona
Il brellin è un cassoncino, poco dissimile da una piccolissima biga, dove le lavandaie si accosciavano ginocchioni per lavare i panni alla pietra. È allogato al margine di quel fossato ove stanno lavando. (dal dizionario milanese-italiano del 1839 di Francesco Cherubini)
Simenon era venuto a Milano in cerca di personaggi e ambienti inediti per un suo nuovo romanzo. "Lo scrittore ha frugato strade, cortili, case e osterie della Milano che ricorda più da vicino la periferia parigina", si legge sul servizio fotografico di Emilio Ronchini apparso su Epoca. 
Milano odia: la polizia non può sparare, è un film diretto da Umberto Lenzi e considerato uno dei più violenti noir italiani.
Alda Merini nacque il primo giorno di primavera, e cioè il 21 marzo, a Milano nel 1931 ed è morta il 1 novembre 2009. Il suo nome fa parte della storia della poesia italiana contemporanea. Abitava a Milano in Ripa di Porta Ticinese 47 (e una targa sulla facciata dell'edificio la ricorda "nell'intimità dei misteri del mondo". A Lei è stato intitolato, nel 2019, il "Ponte Alda Merini", ponte di pietra sul Naviglio Grande che è di fronte a quella che è stata la sua casa. È sepolta al Cimitero Monumentale, dove si può passeggiare tra artisti, letterati e famiglie dell'imprenditoria meneghina. Qui riposano tanti, certamente il più illustre è Alessandro Manzoni, ma anche Filippo Tommaso Marinetti e Salvatore Quasimodo.



IL VICOLO DEI LAVANDAI NELLA PITTURA


Vicolo dei Lavandai
Giannino Grossi (Milano, 1889-1969)


 Vicolo dei Lavandai (1985)
Marco Crippa (Milano, 1936 - )
colori a olio a spatola su tela, 70 x 50 cm



Vicolo dei Lavandai
dipinti di Luciano Allievi (Milano,1947 - )
 
Vicolo Lavandai (2018)
Luciano Curtarello (Milano, 1965 - )
acrilico a tecnica mista su tela, 50 x 50 cm
 
Nevicata ai Navigli con tram (2021)
Giuliano Pisati
olio a tecnica mista su tela, 50 x 100 cm  


Curatore: Rames Gaiba
© Riproduzione riservata


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